Prima classificata sezione poesia
“Ester” di Andrea Simone Appendino
“Ester aveva un colibrì in bocca,
le era entrato per errore
come un moscone.
Fece il nido in un dente da otturare,
e quando Ester doveva mangiare
il colibrì si posava sulla sua spalla.
Si nutriva della sua saliva,
la succhiava come il nettare di un fiore
con il suo minuscolo becco
al lato delle labbra.
Quando Ester mi baciava rideva,
e il colibrì volava all’altezza
delle nostre lingue,
mi guardava negli occhi
con un po’ di invidia verde
e la sua coda blu diventava accesa.
Quando dormivamo il colibrì
svolazzava tra i nostri capelli,
li intrecciava o legava in un nido.
Feci amicizia con le sue piume
il colibrì ispezionava i nostri corpi
in amore, come se fossimo alberi.
Ester e io, diventammo foresta.”
Prima classificata ex aequo sezione poesia
La luna e il violino di Massimo De Tommaso
“Parlavo a sprazzi
tra scomodi silenzi,
raccoglievo appunti
sull’ineffabile
e guardavo le notti
da una feritoia del cuore
che si apriva su un abisso,
così scuro e profondo,
che a pensarlo
tornano ancora le vertigini.
Eppure tu
comprendevi i miei silenzi,
riuscivi con i tuoi sorrisi smorzati
e con i tuoi abbracci mimati
a dare forma a quell’indicibile.
Camminavi senza peso
sui lembi della mia ferita
e guardando nell’abisso
stringevi la testa con le mani,
per scoprire che quelle vertigini
erano soltanto i crateri
di una Luna, dentro cui
morivano gli echi di una poesia
che non era più parola
ma soltanto voce di un violino.”
Prima Classificata sezione narrativa
Buchi nel ghiaccio di Francesco Sindaco
Buchi nel ghiaccio
1. Orsi e balene
Stefano è un ragazzino sottile e sorridente. Guarda intorno a sé con occhi
grandi, e spesso risponde ai saluti delle persone. E’ facile volergli bene, perché
è un bel ragazzino. Molte volte dicono intorno a lui che non riescono ad
immaginarlo da grande, tanto è un equilibrio incantato di lineamenti, movimenti
e colori. Come se qualunque cambiamento non possa che rovinare tutto. O
forse lo dicono per altri motivi. Tutti sono felici di incrociarlo per strada, e
continuando a camminare tengono un leggero sorriso. Spesso Stefano ride, e
ogni volta inganna qualcuno, che crede di avergli provocato il buonumore. Ma in
realtà Stefano ride per una parola strana che il suo amico gli ha sussurrato.
Il suo amico non è lì, sta in mezzo al ghiaccio e al gelo, ma con Stefano si
parlano lo stesso.
«Stanotte il cielo intero è sceso a pezzetti. Una montagna intera davanti
all’uscita»
«E come hai fatto?»
«Con il bastone un buco in alto, e poi il buco grande in basso. Quando è stato
prima bucato in basso è andato tutto male»
«È franato tutto?»
«La testa era andata sotto e il respiro era quasi finito. Ma non c’è paura adesso.
Solo che fuori il bianco fischia ancora e restano solo due aringhe»
«Ommamma! E come fai?»
«Quando finisce il bianco fuori si scende alle rocce e si ruba agli orsi»
«MA SEI MATTO? Gli orsi ti sbranano!»
«Con la stagione del bianco dormono, amico. Si usano i passi piccoli e piano»
«Orsi, quale orsi, Stefano che dici?» la voce di mamma riscuote Stefano dal
dialogo con l’eschimese «Ma stai bene? Andiamo a prenderci una coca?»
Stefano annuisce. La coca gli piace.
Come sarebbe vivere sotto una grande cascata di acqua tiepida, che non ti
lascia mai, ti segue ovunque tu vada? Il mondo fuori è indistinto, cangiante, i
suoni smussati dallo scroscio nelle orecchie, le tue stesse parole escono
offuscate, attutite, forse inaudibili. C’è una distanza fra te e tutto il resto, pochi
centimetri liquidi che cambiano tutto. Stefano ci è nato in questo bozzolo caldo,
con la sua pelle bianco latte, i suoi occhi delicati, i suoi pensieri fluttuanti e
leggeri. Quelle prime volte che il dolore ha perforato la sua barriera fluida è stato
terribile. Era solo un bimbo piccolo. Si è accartocciato su se stesso senzacapire, tremando di terrore. Gli ci sono volute ore per rialzarsi. Quello che lo ha
soccorso, che gli ha calmato il respiro, lo ha preso e rialzato da terra è stata
quella voce nella sua testa, che viene da lontano ma gli suona familiare come
se risuonasse nelle ossa, la voce dell’amico nella neve perenne, nel suo mondo
bianco e vuoto. Da quei momenti non lo ha più lasciato.
L’eschimese ha la stessa età di Stefano. È bravo a capire il vento e la tempesta
che arriva. È anche bravo a distinguere la neve solida che ti sorregge da quella
che sprofondi per metri e metri nel bianco e nessuno ti trova più.
Ma soprattutto è bravo a trovare i punti per bucare il ghiaccio con il rampone
senza spaccare tutto. È un attimo cadere di sotto nell’acqua nera e ciao. Una
volta c’è andato dentro con il piede, e non sembrava nulla, ma in pochi minuti il
piede è diventato tutto grigio. L’orlo sbrindellato del ghiaccio sul mare cambia
ogni mattina, ogni giorno andare a pescare è una cosa diversa.
Talvolta distingue nel nero di fronte a lui il lungo cetaceo, grigio acciaio, che
sfiora la superficie. Scivola lento a fianco della barriera di ghiaccio. È il diavolo.
Descrive un ampio semicerchio. Ma la barriera fra lui e l’eschimese si consolida
dopo il gelo notturno, e come due ampie mani si richiude davanti a lui. Una
strana pianura instabile ondeggia fra il ragazzino e l’oceano. È il pack. Il cetaceo
torna indietro, ma non può avvicinarsi a meno di una trentina di metri. Un tempo
lo temeva, ma ora lo guarda come il cielo o le montagne o il grande occhio che
appare ogni tanto nel cielo. Qualcosa che c’è, che non puoi cambiare.
L’eschimese sa che sotto di lui ci sono voragini infinite, da cui non si ritorna. Ma
il mondo è fatto così, e non c’è da aver paura. C’è l’abisso nero del mare dove il
cetaceo si aggira e lo attende paziente, e ci sono gli abissi bianchi di neve che
risucchia, dove chissà quali lunghissime mani sono pronte a prenderlo.
In mezzo, grandi isole di roccia, invisibili ma solide sotto lo strato di ghiaccio. Su
una di queste ha costruito il suo igloo.
Stefano è speciale, nel senso che ha un superpotere agli occhi e alle orecchie,
che quando vuole spegne il canale, anche se la trasmissione continua.
Vede e sente, ma non guarda né ascolta. Cancella le voci, cancella la facce.
Qualche volta lo fa anche all’indietro, cioè cancella qualcosa che ha appena
guardato o ascoltato, se non va bene per la sua testa. Se lo fa subito funziona,
e tutto fila liscio. Sente il suo bozzolo di acqua tiepida che gli si richiude attorno
smorzandogli tutti i sensi, e si ritrova tranquillo lì dentro, con fuori pioggia o
vento o tempesta non importa. Certo, qualche volta le persone protestano e
bussano e insistono e provano ad entrare, ma lui si rannicchia nella sua testa e
dopo un po’ rinunciano e lo lasciano in pace. Dentro il bozzolo c’è solo il fischiolontano del vento polare, una luce sfumata e la voce tranquilla del suo amico di
sempre. Nessuna sorpresa, nessuna paura.
«Ora ecco che la stagione dei salmoni comincerà»
«E mangerai come un orso affamato»
L’eschimese ridacchia «Importante che si tenga tanto pesce sotto il ghiaccio blu,
per la stagione bianca di poi»
«Oggi ho portato la ricerca sui pesci, ho preso nove»
«Nove va bene?»
«Nove è ok. E’ come prendere tre pesci insieme»
«Ah questa è una grande fortuna»
«Non fortuna, è merito tuo che mi hai spiegato tutto dei pesci polari»
«Amico è amico»
«E mamma mi ha portato a prendere una coca per festeggiare»
«Si è visto tre code di balena azzurra oggi, anche qui è un giorno fortunato»
«Evviva»
«Evviva»
2. L’occhio nel cielo
La mamma di Stefano è lunga e stretta, di solito è blu in basso e gialla o rossa
di sopra, e si muove veloce come un uccello. Sorride sempre a Stefano, e gli
dice che lui è il miracolo della sua vita, e anche se Stefano non capisce cosa
voglia dire cioè, un miracolo è una cosa che non esiste e lui invece esiste lui le
sorride di risposta. Camminano insieme per le strade di Milano in primavera, e
Stefano si sente contento perché a lei basta camminare, senza che lui sia
obbligato a fare niente, e può concentrarsi a parlare con il suo amico
eschimese.
È faticoso capire cosa vogliono le persone. Dicono una cosa ma in realtà ne
vogliono un’altra. Tu fai ciò che dicono, o rispondi a ciò che ti chiedono, ma la
faccia gli si raggrinzisce e cominciano a spingerti o affrettarti, e quello che ti
ripetono è lo stesso di prima, quindi non sai cosa fare o dire di diverso. Ti senti
male perché capisci che è colpa tua. Alla fine alzi il volume del fruscio sopra le
loro voci, e pitturi di bianco sopra le loro facce, entri nel tuo bozzolo tiepido
finché non se ne vanno. Ne ha parlato tante volte con l’amico eschimese, ma lui
non sa come aiutarlo, perché è tutto solo e non conosce altre persone.
«Capisco le pagine di libri e quaderni e posso studiare, ma non capisco le
facce»
«Sono diverse dal tuo riflesso?»
«Si riempiono di grinze ogni tanto, e allora so che ho sbagliato qualcosa»
«E allora scappi, come con gli orsi?»
«No, perché non mi mangiano. Però vedo che tutto è rotto come in schegge, e
devo andarmene»
«Fai bene»
«Notte»
«Buonanotte»
Quando finiscono di parlare e Stefano spegne la luce per dormire, anche
l’eschimese si prepara per la notte. Il silenzio non gli fa paura, ma la voce del
suo amico è meglio.
Appena l’ultimo baluginio di luce grigia scompare a ovest, il cielo si fa tanto nero
che anche il biancore del ghiaccio e della neve si oscurano fino a spegnersi.
Non ci sono stelle, né una luna che addolcisca le tenebre.
La pianura polare è attraversata da predoni silenziosi e feroci, che cavalcano le
raffiche di vento e sbranano in un istante ogni vivente che si avventuri all’aperto.
E il ghiaccio scricchiola di notte, come se il grande cetaceo si fosse avventurato
sotto la crosta gelata e provasse a frantumarla e sprofondarla nelle acque nere.
L’eschimese resta ben tappato nella sua cupoletta, riscaldandosi sotto pellicce
di orso, e ravvivando il fuoco nel cerchio di sassi. Ma ogni tanto non resiste e
sbircia fuori nel buio, spostando il blocco di ghiaccio che funge da porta. Perché
di notte talvolta il cielo si spalanca, e il grande occhio illumina la pianura di colori
violacei, verdi e arancio, quasi come se fosse giorno. E allora i maledetti predoni
scompaiono, e anche il ghiaccio la smette di scricchiolare.
Il ragazzino resta incantato a guardare l’occhio sopra di sé, e talvolta si
avventura fuori dall’uscio, per farsi inzuppare da quella luce magica e cangiante.
Stefano gli ha detto mille volta che non è un occhio, ha guardato su internet e si
chiama aurora boreale, ma all’eschimese non importa.
Quelle notti lui si sente il figlio del cielo, e che tutto gli sarebbe possibile, se solo
sapesse cosa fare.
Stefano all’intervallo passa tanto tempo a colorare, non perché gli piaccia ma
perché non sa cosa fare. Suona la campanella e tutti scattano dai banchi e
corrono in giro, stanno fuori nel corridoio o anche in giardino se è bello. Fra
poco sarà primavera. Formano gruppi, scherzano e giocano e strillano, mentre
Stefano si concentra con i colori.
Ma un giorno si avvicina Marco, uno dei capi branco, gli appoggia la mano sulla
spalla e gli fa «Ehi Ste, su vieni con noi. Ci manca uno per la squadra». Stefano
non è abituato che chiunque gli rivolga la parola, figuriamoci poi Marco, quindiarrossisce come un peperone, ma poi si alza e lo segue in giardino, perché non
saprebbe come dire di no.
Non è bravo con le regole dei giochi, e poi quando troppe persone parlano tutte
insieme e urlano dopo un po’ la testa gli va insieme e comincia solo a sentire
una specie di rombo che lo confonde e lo rende ansioso. Questa volta però si
impegna al massimo, stringe gli occhi e cerca di ascoltare la voce di Marco in
mezzo alle altre, che lui è alto e biondo e forte e tutti vogliono essergli amici. E
oggi ha invitato proprio lui. Allora si impegna tantissimo, cerca di prendere la
palla e poi si guarda intorno perché non vede Marco, ma si muovono tutti così
veloci che le immagini lo stordiscono. Poi gli arriva una pallonata sulla schiena,
e un’altra, lui si volta e rivolta e infine vede Marco che gli corre incontro con la
faccia sorridente, e a Ste si allarga il cuore. E’ una sensazione così strana,
come una specie di dolore. Poi ecco tutti gli altri attorno, lui si gira e sorride qua
e là, anche se non capisce che facciano tutti intorno proprio a lui. Poi arriva una
pallonata diretta in pancia e uno ride, poi un’altra all’inguine e tutti ridono, anche
Marco. Gli fa male un po’ dappertutto, ma soprattutto non capisce, quindi non si
cura del dolore e fastidio, e si guarda intorno con una domanda sulla lingua, ma
arrivano altre pallonate, queste molto più forti però.
Ora lo fanno muovere avanti e indietro a spinte, e lui non distingue più bene i
volti, è confuso e la testa che gira all’impazzata. Marco ora gli urla «Ste,
prendila!!! Su forza che ce la fai!» Marco gli parla! Ma dov’è? Non riesce a
vedere bene. Un secondo dopo una pallata lo colpisce in faccia, non vede più
nulla e casca giù come un sacco.
«Amico? Amico?»
Il ronzio nelle orecchie è così forte che la voce dell’eschimese si confonde come
un fischio sullo sfondo.
Ha calato la lenza nel buco nel ghiaccio, e ora prova a parlare al suo amico.
Quando pesca fa sempre così, come se il filo fosse un telefono, e la voce si
sente meglio. L’eschimese sa bene che Stefano non vive giù sotto il ghiaccio,
ma funziona, quindi perché tante domande? Stefano sente come un prurito
all’orecchio, un grattare ma non fastidioso. Allora chiude gli occhi e dopo un po’
l’amico gli parla.
Oggi però la voce è lontana, e Stefano ci mette un bel po’ a rispondere, sdraiato
per terra com’è nel cortile della scuola.
«Ciao, scusa eschimese»
«C’era paura che non sentissi più»
«Non ho preso la palla, era troppo veloce»
«La palla?»
«E’ un gioco con i compagni»«Quali compagni?»
«Sono qui per terra»
«Sei lì per terra? Quale terra? Si deve raccontarti dell’occhio»
«Quale occhio?»
«L’occhio nel cielo, oggi è cambiato. Ora è grande come tutto il cielo e guarda
giù proprio me»
«Ah, ok. E hai paura?»
«Non c’è paura. Ma si voleva dirlo all’amico»
«Stefano! STEFANO!»
Chi parla ora? Non è l’eschimese. Ma che confusione. Stefano apre gli occhi.
«Che succede Stefano, ti sei fatto male?» è la prof Vergani, che è rotonda come
una mela e ha gli occhi che si muovono strani, come due farfalle.
«Ti hanno fatto qualcosa?»
«Non ho preso la palla, era troppo veloce, è colpa mia».
Oh che male, urca! Si accovaccia e si tocca un occhio. La prof lo tira in piedi.
Non arrivano altre pallonate. Se ne sono andati, la campanella ha forse
suonato?
Dopo in classe prende coraggio, si avvicina da dietro a Marco, che è seduto
nella fila a destra, si fa tutto rosso ma riesce a dirgli «Scusami non ho preso la
palla era troppo veloce», Marco si gira e lo guarda con una faccia strana, ma poi
Stefano torna veloce al suo posto mentre il ragazzo accanto a Marco sussurra
«Questo è scemo». Comunque Stefano non lo sente, o meglio lo sente ma non
lo ascolta. E’ già rientrato nel suo bozzolo tiepido, aspettando che tutta
l’emozione passi.
3. Seguire gli uccelli
Stefano prende l’autobus da solo per tornare a casa.
Babbo non può venirlo a prendere, perché non vive più con loro e sta in una
casa lontana. All’inizio mamma non voleva che tornasse solo, ma lui ha insistito,
e dopo qualche giorno si è convinta. Ora mamma può restare al lavoro, torna
prima a casa nel pomeriggio e tutti sono contenti.
È un giorno di fine marzo radioso, con il vento forte che scuote le nuove foglie
dei platani, e agita ombra e luce sul marciapiede, con grande fastidio di Stefano,
che vorrebbe un bel grigio invernale per poter concentrare i suoi pensieri su ciò
che è successo a scuola.
Per di più, l’eschimese continua a chiamarlo e lui proprio non gli vuole parlare.Oggi è come se il bozzolo attorno al suo corpo fosse diventato sottile, e piccoli
spilli del mondo fuori lo pizzicassero ovunque. Eppure non vuole spegnersi o
nascondersi dentro. Vuole capire cos’è andato storto, e perché tutti gli si siano
rivoltati contro ad un certo punto.
È così concentrato che sbaglia fermata dell’autobus, e deve farsi venti minuti di
scarpinata fino a casa.
È così concentrato che a casa mangia solo una banana, e mamma non riesce a
cavargli una parola fino a sera.
Forse bisogna insistere ancora, conclude.
Per esempio, i compiti li sa fare, sa leggere e scrivere benissimo, perché non
dovrebbe imparare un gioco con la palla? Una cosa che anche i bambini sanno
fare?
Così, il giorno dopo all’intervallo anche se non lo invitano ci va lui, si avvicina e
chiede di giocare ancora.
Le facce si fanno tutte grinzose dal ridere e anche Marco, ma Stefano va avanti
lo stesso. Però poi il gioco non va meglio dell’altra volta. Il rumore attorno sale e
sale, diventa un rombo di cascata, Stefano non capisce dove mettere le mani, e
di nuovo comincia a prendere pallate sulla schiena, sulla pancia e in faccia.
Cade per terra e si sbuccia mani e gomiti. Questa volta però si alza e scappa
via prima che lo bombardino di nuovo. Rientra in classe da solo, si siede al
banco e aspetta che passi il ronzio.
«Amico, amico»
Non si sente proprio di parlare, è ancora scombussolato. Ma quello insiste, e
insiste.
«Amico, amico»
Alla fine Stefano sospira e gli risponde.
«Ciao eschimese»
«C’era paura di non sentirti»
«Sto bene, ma non prendo la palla»
«Spiace molto. Ma si voleva dirti dell’occhio»
«L’aurora boreale»
«Quella proprio sì. Oggi l’occhio è durato all’arrivo del sole»
«Davvero?»
«Forse giorno fortunato, forse si pescano dieci salmoni» l’eschimese ride.
Stefano prova a ridacchiare un po’, ma sta pensando ancora al gioco della palla,
e la voce dell’eschimese comincia a crepitare e ronzare, e non si capisce più.
«Amico? Amico?»
Mentre Stefano fa la doccia di sera, mamma entra sempre a controllare.Stasera si agita molto.
«Ancora questi lividi? Oddio, guarda le mani! E i gomiti! Ma che hai fatto?»
«Non riesco a prendere la palla»
«Ma quale palla?»
«Puoi uscire mamma? Mi devo lavare»
«Prima mi dici cosa è successo»
Stefano racconta del gioco e di Marco, così alla fine lei esce e lascia Stefano
tranquillo a lavarsi. Aveva la faccia raggrinzita, ma Stefano non crede di avere
sbagliato, quindi non ci pensa più.
Ogni sera Stefano chiama babbo prima di dormire, ma stasera mamma è lì che
occupa il telefono e gli fa gesto di andare via.
«Ti ho detto che ne ho già parlato con la vicepreside»
«No, evidentemente non basta»
«Se pensi di saper fare di meglio, anziché lamentarti accomodati!»
Stefano guarda il soffitto e non riesce a dormire. Rivive ogni movimento della
palla e dei compagni, e cerca di capire dove ha sbagliato. Muove le mani e le
braccia al buio. Sente il prurito all’orecchio del suo amico che gli vuole parlare,
ma non ne ha voglia. Ora l’importante è capire come prendere la palla e
rilanciarla a Marco. Si immagina la scena, e cerca di rivivere quella strana
sensazione al petto che gli è venuta quando Marco gli ha sorriso. Vuole proprio
prendere la palla, rilanciargliela e rivedere lui che gli sorride.
Il cielo è già buio sulla pianura polare, e l’eschimese prova inutilmente a parlare
con l’amico. È molto preoccupato, e cerca d’interpretare i segni.
Quando vede un’isola di ghiaccio con gli strati ribaltati, cioè con il ghiaccio blu in
alto e quello turchino in basso, vuol dire che arriveranno le onde alte al
tramonto, e bisogna stare lontani dal pack.
Quando trova piume galleggiare sull’acqua, allora il branco di orsi si sta
spostando dal promontorio nella sua direzione.
Quando le uova nei salmoni sono scure e color metallo, è meglio continuare a
pescare, perché il banco di pesci sta per migrare. Tutte cose così.
Ma non riesce a trovare nuovi segni che lo possano aiutare con il suo amico.
Dopo un’ora il cielo si illumina di nuovo, con le strisce verdi che si muovono
lente in un drappo immenso, con un orlo cremisi. Ma questa volta non è più
l’intero cielo a pulsare di luce, è solo una striscia serpeggiante nel nero che
addobba la pianura di ghiaccio come una larga strada, accogliente e infinita,
verso sud.
L’eschimese riflette, poi la risposta gli appare in un lampo. Si illumina di gioia e
comincia a saltare, alzando le mani per ringraziare il cielo.«Amico? Amico?»
Stefano si rigira nel letto, poi si stiracchia e socchiude gli occhi. La luce filtra già
dalle persiane. Allora guarda la sveglia, mancano pochi minuti all’ora di alzarsi.
Si mette a sedere, si gratta l’orecchio.
«Ciao»
«Si pensa di dover partire e andare verso il sud a trovare l’amico»
«Davvero? A sud… vuol dire qui?»
«L’amico dice che l’eschimese è a nord, quindi l’amico è a sud»
«Ma che strada prenderai?»
«Si seguono gli uccelli nel loro viaggio»
«Bene»
«Forse il viaggio è lungo, ma si arriverà alla fine»
«Dirò alla mamma di preparare il letto per te»
«Si vede l’occhio come una freccia, è questo il segno»
«Sai, io ancora non so giocare con la palla»
«È come una freccia verso il sud»
«Giro le mani ma non la prendo mai»
«Mi dispiace»
«E pensa che ho buoni voti e leggo e scrivo»
«Io tutte queste cose non le capisco»
«Ma mi piacerebbe giocare con gli altri all’intervallo»
«Quando si arriva insieme, si farà la pesca nel ghiaccio»
«Sicuro, ma bisogna aspettare l’inverno»
«Allora insegnerai gli altri giochi»
«Va bene»
L’eschimese pesca dalle prime luci dell’alba, la scorta è importante per il
viaggio, ma oggi i pesci non vengono su. Ora vede qualcosa che affiora dal
buco, è una scheggia di ghiaccio bluastra. Viene dalle profondità dei crepacci, è
vecchia come le montagne. Forse un terremoto ha crepato il cuore gelido del
sottosuolo, ha disperso milioni di schegge nell’oceano nero, poi un rigurgito di
corrente ne ha portata una a galla nel buchetto da pesca del ragazzino. Ma ora
la scheggia antica sta rapidamente svanendo, come un qualunque pezzo di
ghiaccio nato in una notte. Il ragazzino la prende, scruta il cristallo blu,
chiedendosi come possa essere davvero acqua, se abbia della magia infusa, e
se lui possa rubarne un po’ per il lungo cammino che ha deciso di intraprendere.
Ma alla fine restano solo guanti bagnati, il blu è dissolto nell’aria del mattino,
tornato in cielo.Vorrebbe chiamare ancora l’amico per dirglielo, ma sa che non gli
risponderebbe. E’ tutto così difficile, e l’amico è sempre preoccupato. Non riesce
quasi più a parlargli. È sicuro che ha bisogno del suo aiuto.
L’eschimese stringe gli occhi verso l’alto, oggi il sole è radioso. Tempo di partire.
È l’intervallo, e Stefano torna ancora a chiedere di giocare.
Questa volta però tutte le facce si raggrinziscono in modo diverso. Uno gli dice
«Ma vai via, scemo!» un altro ridacchia di lato, un terzo scuote la testa. Marco lo
guarda ancora strano, e Stefano non capisce, ma insiste. Lui vuole giocare.
Allora un altro compagno, uno piccolo con i capelli a spazzola fittissimi e
l’apparecchio per i denti gli si avvicina e lo spinge forte. Stefano barcolla indietro
ma non cade. «Perché mi spingi?» gli fa «Dobbiamo giocare con la palla» il
compagno con la spazzola lo spinge ancora. Si avvicina anche un altro, e anche
questo gli dà uno spintone. Alla fine sono in quattro a spingerlo e lui non riesce
più a stare in piedi e cade giù. Non vede Marco, e si copre la testa con le mani,
ma non succede più nulla. Qualcuno gli tocca la spalla, è ancora la prof Vergani
e la sua faccia di mela.
«Stefano, stai bene? Vuoi che chiamiamo tua madre?»
«No prof, è che non ho capito proprio il gioco stavolta»
Silenzio.
«Amico?»
Ancora silenzio. La voce dell’eschimese è di nuovo scomparsa nel fruscio, ma
Stefano ha altro da pensare.
4. Il muro e oltre
Oggi all’uscita da scuola c’è babbo che lo aspetta. Stefano non ama le sorprese,
ma questa sì e lo abbraccia. Babbo ha un barbone come un nuvola nera e ha
odore di pioggia. Anche la sua macchina gli piace, perché ha un flat panel e i
video di youtube che mamma non gli fa guardare. Babbo gli chiede degli amici e
del gioco all’intervallo, ma Stefano è assorto nei gameplay di Fortnite e non lo
sente.
Sul flat panel appare la faccia di mamma, e babbo attacca l’auricolare, poi
rimette i video per Stefano.
«Sì è qui, andiamo da Just Pizza»
«Mi sembra tutto a posto, ma fa scena muta ovvio»
«Te ne parlo poi. Ho fatto il culo a tutte, ma sono delle rincoglionite, te l’ho
sempre detto. Buonismo e mediocrità, come se il bullismo si risolvesse da solo»
«Senti, mi hanno scritto dalla Danimarca»
«Sì esatto. Sono quasi undici anni, e dobbiamo decidere sull’altro embrione.
Sono gli ultimi giorni»
«Non lo so. Credo li distruggano o qualcosa del genere»
«Boh, forse li tengono in freezer per altri dieci anni, ma forse c’è da pagare. E
francamente…»
«Ok ok poi non dire che non ti dico le cose»
«Ciao ciao ciao»
Le dita della sera già screziano il cielo di rosso e grigio scuro.
Le rocce a coltello escono dal ghiaccio nere, frastagliate e interminabili, e non si
vede un valico, un passaggio. L’eschimese sa che non farà in tempo a costruirsi
un riparo, e dovrà trovarsi al più presto un angolo riparato fra le rocce. Ma sente
un grande peso al petto, è la preoccupazione per il suo amico. Allora decide di
arrampicarsi comunque, e provare a superare la sommità. Appena il sole
scompare, un vento furioso apre le ali sollevando turbini di neve pungente,
mentre il gelo si chiude a tenaglia. L’eschimese si aggrappa agli spunzoni, si tira
su di un metro, poi cammina in equilibrio sulle creste taglienti e arriva al balzo
successivo. Fra pochi minuti non si vedrà più nulla, ma davanti a sé il ragazzino
scorge un baluginio, come un riflesso sfocato. Il cuore gli batte più forte, forse è
l’occhio che lo chiama. Supera ancora due crepacci ed è ormai a pochi metri
dalla luminescenza, quando vi riconosce la sua forma. Davanti a sé trova un
muro di ghiaccio, liscio e trasparente, che gli rimanda beffardo la sua immagine.
Lo colpisce con il rampone, nulla, sembra più duro del ghiaccio normale, e
tintinna come una campana. Si allunga verso l’alto, si gira di lato, ma è infinito in
ogni direzione.
Lo colpisce ancora e ancora, mentre il cuore gli balza in petto. Il tintinnio dei
suoi colpi viene portato via dal vento polare, mentre cala il buio cieco della
notte.
Oggi piove ed è freddo, e quando finiscono le lezioni a metà pomeriggio sembra
quasi novembre. Fuori dalla scuola Stefano si mette il cappuccio, si stringe nella
giacca e deve stare attento a non scivolare sul marciapiede verso la fermata del
bus, quindi guarda bene in basso i suoi piedi e non si accorge dei ragazzi che
gli vengono addosso.
Sente solo un colpo fortissimo alla faccia, la testa gli si gira e si ritrova per terra.
«Stronzo di merda!»
«Figlio di puttana!»
«Sei andato a piangere a casina, eh?»
«Testa di cazzo!»
Stefano non capisce cosa stia succedendo, vede le forme muoversi sopra di lui
e riconosce il compagno con la spazzola e l’apparecchio per i denti, poi
riconosce l’altro con i capelli ricci e scuri, e un altro con gli occhiali rossi e un
cappuccio nero. Ma cosa vogliono da lui? Viene preso dal terrore, la guancia gli
brucia e sente un affanno al petto.
«Prova ad andare a piangere da papino ora!»
Uno gli tira un calcio sulle gambe, poi un altro nella schiena. Il terzo gli prende lo
zaino e lo lancia in strada.
«Vai a prendertelo ora, mongoloide!»
Stefano precipita nel ghiaccio. Sente la pelle strappata, sente gelo e punture
dappertutto, ogni angolo del suo corpo denudato e schiaffeggiato. Il bozzolo è
scomparso e lui è a terra nudo nel mondo. Un mondo che continua a prenderlo
a calci.
Un sapore acido gli sale in bocca, sente scosse elettriche nelle braccia, poi la
schiena gli si irrigidisce e non riesce più a respirare.
«Ehi guarda lo stronzo» dicono le voci «Ma che gli succede?» gli occhi si
oscurano, la testa gli si spegne «Andiamo via, dai, subito!» è l’ultima cosa che
sente.l’occhio che lo chiama. Supera ancora due crepacci ed è ormai a pochi metri
dalla luminescenza, quando vi riconosce la sua forma. Davanti a sé trova un
muro di ghiaccio, liscio e trasparente, che gli rimanda beffardo la sua immagine.
Lo colpisce con il rampone, nulla, sembra più duro del ghiaccio normale, e
tintinna come una campana. Si allunga verso l’alto, si gira di lato, ma è infinito in
ogni direzione.
Lo colpisce ancora e ancora, mentre il cuore gli balza in petto. Il tintinnio dei
suoi colpi viene portato via dal vento polare, mentre cala il buio cieco della
notte.
Oggi piove ed è freddo, e quando finiscono le lezioni a metà pomeriggio sembra
quasi novembre. Fuori dalla scuola Stefano si mette il cappuccio, si stringe nella
giacca e deve stare attento a non scivolare sul marciapiede verso la fermata del
bus, quindi guarda bene in basso i suoi piedi e non si accorge dei ragazzi che
gli vengono addosso.
Sente solo un colpo fortissimo alla faccia, la testa gli si gira e si ritrova per terra.
«Stronzo di merda!»
«Figlio di puttana!»
«Sei andato a piangere a casina, eh?»
«Testa di cazzo!»
Stefano non capisce cosa stia succedendo, vede le forme muoversi sopra di lui
e riconosce il compagno con la spazzola e l’apparecchio per i denti, poi
riconosce l’altro con i capelli ricci e scuri, e un altro con gli occhiali rossi e un
cappuccio nero. Ma cosa vogliono da lui? Viene preso dal terrore, la guancia gli
brucia e sente un affanno al petto.
«Prova ad andare a piangere da papino ora!»
Uno gli tira un calcio sulle gambe, poi un altro nella schiena. Il terzo gli prende lo
zaino e lo lancia in strada.
«Vai a prendertelo ora, mongoloide!»
Stefano precipita nel ghiaccio. Sente la pelle strappata, sente gelo e punture
dappertutto, ogni angolo del suo corpo denudato e schiaffeggiato. Il bozzolo è
scomparso e lui è a terra nudo nel mondo. Un mondo che continua a prenderlo
a calci.
Un sapore acido gli sale in bocca, sente scosse elettriche nelle braccia, poi la
schiena gli si irrigidisce e non riesce più a respirare.
«Ehi guarda lo stronzo» dicono le voci «Ma che gli succede?» gli occhi si
oscurano, la testa gli si spegne «Andiamo via, dai, subito!» è l’ultima cosa che
sente.
«Amico! Amico!»
La terra trema, l’occhio celeste si è chiuso e il nero sta precipitando
sull’eschimese, che continua a battere il rampone sul muro di cristallo.
«Amico, parla! Amico! Sei lì, amico?»
Le rocce dietro di lui franano una dopo l’altra, è la fine del mondo. Il vento
sovrasta la sua voce con un rombo basso e crescente. L’unico suono che
sopravvive è il tintinnio sul cristallo. Fosse l’ultima cosa che farà nella sua vita, il
ragazzino continua a battere, e battere. Il tintinnio continua, e continua, e
continua.
Stefano precipita nel vuoto e nel buio, senza più corpo né protezione, e un
vento possente lo fa roteare come una foglia, e trasporta il tintinnio lontano fino
a lui.
Cade piroettando, sbattuto in ogni direzione mentre il tintinnio lo risucchia in
basso, e il buio si frantuma in pezzetti luminescenti finché non perfora nuvole di
nebbia e vortica fra luci al neon e riflessi di gocce di pioggia che batte fitta sulle
strade ciottolate di un luogo lontano, e attraverso le grandi vetrate sporche di un
palazzo deserto, segue il tintinnio lungo un pavimento di linoleum passando
attraverso una, due, dieci porte chiuse. Ancora non ha un corpo e scivola
sospeso a mezz’aria nella penombra di una stanza fra tavoli bianchi e lunghi
scaffali, fino al tintinnio che risuona da un angolo, dove a terra sono affastellate
quattro grosse scatole metalliche avvolte in nastri di cellophane, sigillate con un
nastro rosso e marcate con il simbolo di smaltimento speciale. Stefano continua
a non avere un corpo, per cui penetra come spirito attraverso il metallo di una
delle scatole fino all’origine del tintinnio, una capsula minuscola, un atomo di
vetro che risuona come un diapason, colpito dall’interno. Ma qui il suo corpo
ritorna grumo solido, e cozza sul vetro con occhi bocca e mani, e non riesce ad
andare oltre. E aldilà del vetro, a pochi millimetri una piccola figurina colpisce
instancabile il muro trasparente. È identico a lui, agita le braccia e lui fa lo
stesso, sembrano un riflesso allo specchio e per un attimo sembrano essersi
riuniti. Ma poi Stefano realizza che lui resta lui, e l’altro è qualcun altro, che
questa è l’unica verità, e in un istante tutto scompare.
«Stefano? Ehi Ste mi senti?»
La schiena, poi una gamba poi l’altra, poi lo stomaco e infine la testa, tutto gli fa
male mentre si risveglia. Formicola, pizzica, punge. Sente freddo e bagnato.
Non ha il coraggio di aprire gli occhi, ha paura di altre botte, di altre urla. Ma la
voce è diversa adesso.
«Ste, apri gli occhi dai»
Stefano prende un respiro doloroso e guarda sopra di sé. Dopo alcuni secondi
di nebbia riconosce Marco che gli porge lo zaino.
Si raddrizza, Marco lo tira su in piedi. Ha i pantaloni fradici di pioggia e fango e
sente male dappertutto, ma riesce a tenersi dritto.
«Senti Ste» Marco sembra imbarazzato, guarda in basso. «Insomma, senti sono
dei coglioni. Cioè, siamo dei coglioni, ma adesso basta, almeno per me basta»
Stefano non sa cosa dire. Stanno lì qualche secondo, poi Stefano si riprende lo
zaino.
«Grazie, ma non ho proprio capito cosa è successo»
Marco lo guarda di nuovo con la sua faccia strana, poi fa un mezzo sorriso.
«Niente, diciamo che mi spiace, ok?»
«Ok»
«Vuoi che chiami i tuoi o qualcosa? Ho il telefono»
«No, no grazie. Prendo l’autobus»
«Davvero?» Marco ride, stavolta «Ma sei Superman! Ti accompagno un pezzo»
Stefano sente una bizzarra sensazione, come se forme e colori fossero nitidi e a
fuoco, e tutto il mondo attorno, con la sua pioggia, le scarpe, lo zaino e tutto
quanto, gli si fosse appiccicato addosso. Non è affatto male.
«Ok» gli dice.
5. Verso sud
L’eschimese si è svegliato. È malconcio, mezzo coperto di pietre e blocchi di
ghiaccio, e tutto pieno di lividi, ma è ancora vivo. Il mondo non è finito e
l’orizzonte ha già i colori dell’aurora. Si tira in piedi, rabbrividisce nelle sue
pellicce e guarda il cielo.
Il grande occhio si è riaperto, ed è ancora visibile nella prima luce del giorno,
tanto è splendente. È la stessa strada che lo ha condotto fin qui ai confini del
mondo, ma ora continua verso sud.
La parete infinita di ghiaccio è scomparsa, e oltre le rocce nere taglienti si
stendono valli innevate e boschi e altre montagne lontane.
Allora capisce che l’occhio nel cielo è davvero grande e buono, e lo ha guidato
di corsa a vedere l’amico almeno una volta, e a salutarlo in tempo.
L’eschimese non è un sentimentale, ma un po’ gli bruciano gli occhi. Gli
mancherà tanto l’amico. Ma già lo stomaco gli brontola, e non gli è rimasta
nemmeno un’aringa in sacca. È ora di mettersi in cammino. Ha davanti una
lunga strada, e un mondo intero nuovo di zecca da esplorare.